Una visione a 360° sull’arte e la società di cui si sentirà la mancanza: qualche giorno fa è morto Pino Rabolini, il fondatore di Pomellato, all’età di 82 anni. Un uomo riservato, poco interessato alle interviste, nipote di un orafo e figlio di un commerciante di gioielli: più fatti che parole nella sua storia. Nel 1967 aveva visto il mondo della moda allontanarsi dalla couture per orientarsi verso il prêt-à-porter e con brillante intuizione aveva deciso di tradurre tale tendenza anche in gioielleria. Lanciò quindi il brand Pomellato con un focus iniziale sull’oreficeria di matrice italiana, riletta però in chiave design con formule innovative e con un pizzico di ironia.
La classica catena è stata rivisitata dal suo team creativo in modo completamente fuori dagli schemi, ampliando i volumi ed enfatizzando l’effetto handmade delle texture, per passare poi ai ciondoli “pazzi” (come lui stesso li ha definiti), completamente snodabili, a forma di re e di orso. «L’antitesi perfetta – diceva Rabolini – al gioiello importante, che si acquista per certificare ricchezza, potere, solidità sociale. Il fatto sorprendente è che sono piaciuti e l’azienda ha cominciato a crescere».
Il resto è storia conosciuta, dalle campagne pubblicitarie di grandi fotografi con grandi testimonial allo sviluppo di collezioni con pietre semipreziose cabochon che sono diventate il segno distintivo del marchio milanese. Negli ultimi anni Rabolini aveva cercato di traghettare l’azienda in mani italiane ma alla fine aveva trovato un accordo con il gruppo francese Kering, di proprietà della famiglia Pinault, un interlocutore solido e capace di dare un futuro certo alla maison. Per sé invece aveva tenuto la passione per l’arte, condivisa con il figlio pittore, dedicandosi alla raccolta di disegni di artisti italiani del 900.